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L’intervista qui pubblicata è stata realizzata nell’estate del 2020 ed è parte del libro “Veder Scorrere” di Anna D’Elia, pubblicato da Meltemi nel 2021.

 

 

AD Come effetto collaterale dell’emergenza sanitaria e del distanziamento sociale  abbiamo vissuto  una digitalizzazione delle nostre esistenze,  le tecnologie virtuali in che modo possono favorire  il controllo della collettività?

VV Ho l’impressione che l’emergenza sanitaria dovuta al Codiv19, e l’isolamento sociale che abbiamo vissuto e continuiamo a praticare in questi giorni sebbene in forme più leggere, abbiano evidenziato e accelerato tendenze e situazioni già esistenti. Fra queste il processo di digitalizzazione delle nostre vite in atto sin da quando con l’introduzione di Internet[1] nella realtà si è determinato un cambiamento epocale, simile a quello avvenuto in Europa nel 1500 in seguito all’introduzione della stampa a caratteri mobili[2]. Una rivoluzione, quella digitale, che procede più rapidamente di quella nella stampa e che a tratti nella mia percezione ha una velocità vertiginosa anche quando è entusiasmante.

Mi chiedo quali fossero le paure, i timori, diffusi tra le persone nel periodo che ha determinato la diffusione delle macchine per la stampa. 

Le tecnologie del web hanno rivoluzionato il modo in cui ci connettiamo al mondo e pensiamo. Qualche settimana fa ho avuto modo di trascorre alcune ore in conversazione online con un musicista di Stoccolma, sconosciuto fino a quel momento, con cui condivido la partecipazione ad un gruppo di nomadi digitali, persone interessate alle cryptocurrencies e alla blockchain e a sperimentare modelli di governance decentralizzata. Ci siamo trovati a discutere di materialismo storico, di identità mestize, di essere europei e non esserlo e di molte altre cose. Faccio questo esempio perché prima di parlare del controllo, mi preme di ricordare dei benefici che le tecnologie del web portano: accesso a informazioni e persone che altrimenti non sarebbero raggiungibili e, più di recente, sistemi come la blockchain che trasformano i modelli organizzativi e di scambio della società e che hanno la potenzialità di ridurre sperequazioni sociali diffuse nel mondo.

È chiaro come la rivoluzione digitale sia oggi in una fase iniziale, gli scienziati dicono si compirà quando IOT, AI e Blockchain saranno connessi e così innescheranno la quarta rivoluzione industriale di cui possiamo solo immaginare gli esiti.

Come canta il coro di A Better Chance to Gain Enough Entropy: “We have no clue of how it will be /We have to think and look at history”[3]

E guardando alla storia non possiamo non ricordare come l’uso della tecnologia impone cautela e responsabilità. E per esercitarle è necessaria la consapevolezza, quella piccola fetta di consapevolezza possibile a chi è coevo a un cambiamento.

A proposito del rapporto con la scienza mi viene in mente la storia del fisico Ettore Majorana, raccontata nel meraviglioso saggio “La Scomparsa di Ettore Majorana” di Ferdinando Sciascia (1975). Nel 2014 ho dedicato un lavoro a questo scienziato e alla sua scelta di scomparire per non essere connivente, né contribuire agli studi sulla fissione nucleare di cui aveva premonito i possibili esiti negativi: La Mossa di Ettore in cui ho invitato due grandi maestri di scacchi a mettere in scena la sua scelta in una sfida sulla scacchiera [4]. Ora a distanza di alcuni anni, mi chiedo se non sia più potente la scelta di non scomparire davanti ad un cambiamento, una tecnologia, una scoperta, che inevitabilmente a prescindere dalla posizione del singolo esisterà, e piuttosto restare, agire, e contribuire ognuno con le sue competenze a indirizzare quella tecnologia verso le sue potenzialità migliori così da scongiurarne gli esiti disastrosi. Ogni tecnologia contiene almeno una dualità, come la si guarda e la si usa è una questione strettamente politica nella mia opinione.

E così ora torno alla tua domanda sulle tecnologie digitali e sul loro rapporto con il controllo: oggi non abbiamo titolarità del flusso dei dati che ognuno di noi produce attraverso movimenti e azioni online, o anche offline mentre siamo connessi a qualche forma di applicazione del web. Questo flusso di dati è sotto il controllo di stati e aziende private che registrano e catalogano in modo spesso permanente queste informazioni. I primi rendono così i cittadini soggetti alla mercé del potere dello stato, i secondi trasformano il consumatore e i suoi dati in un prodotto che un’azienda vende a un’altra azienda, che vende a un’altra azienda, e così via creando un’economia della predizione.

In questo periodo di isolamento in cui la nostra unica finestra sul mondo esterno a quello della casa è stato internet (e che fortuna averla questa finestra) abbiamo trascorso molto più tempo online e utilizzato molte più applicazioni e programmi e prodotto molti più dati, che sicuramente hanno portato i cosiddetti GAFAS[5] ad arricchirsi esponenzialmente. I dati sono il nuovo petrolio da estrarre e vendere a caro prezzo, e poiché contengono spesso informazioni sensibili della vita di cittadini e delle loro scelte, vanno protetti, così che ognuno di noi possa scegliere cosa divulgare a chi e quando.  Possedere informazioni sensibili sui cittadini è una forma di potere storicamente esercitata dagli stati, e questo accade nei modi più estremi e spesso visibili nei regimi totalitari, ma ha forme più invisibili e sottili anche nelle nostre democrazie.

Negli ultimi anni ci sono stati tanti gli eventi e le persone che hanno cercato con azioni e parole di sensibilizzare l’opinione pubblica a questi temi, ne cito tre tra le più note: Wikileaks e il suo fondatore Giulian Assange.  Edward Snowden, il whistleblower americano noto per aver rivelato in collaborazione con alcuni giornalisti nel giugno 2013 “documenti segreti su programmi di intelligence di sorveglianza di massa del governo statunitense e britannico, tra cui un programma di intercettazione telefonica tra stati uniti e unione europea riguardante i metadati delle comunicazioni e i programmi di sorveglianza Internet”. [6] Snowden inoltre nel 2019 ha pubblicato la sua autobiografia in cui racconta come è arrivato a questa scelta e della necessità di usare la criptografia per proteggere i nostri dati[7].  Una storia cruciale in questo percorso di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul potere che si detiene raccogliendo dati degli utenti online è stata anche lo scaldalo di Cambridge Analytica che ha rivelato come l’azienda omonima ha sfruttato i dati personali di oltre 50 milioni di utenti per fini di propaganda politica elettorale. Scandalo raccontato dal documentario The Great Hack Jehane Noujaim and Karim Amer.

[1] “Internet, prima di essere chiamata così, era nata nel 1969, si chiamava ancora Arpanet, dal nome dell’agenzia di ricerca americana che l’aveva progetta, l’Arpa (Advanced Research Project Agency) e aveva cominciato a usare i protocolli che ancora la fanno funzionare, cioè il TCP/IP (transfer Control Protocol/Internet Protocol) solo molto più tardi, nel 1983. Quando il TCP/IP diventò lo standard di comunicazione della rete comincerà a chiamarsi così, Internet, per distinguerla dalle tecnologie che la facevano funzionare e che si chiamavano internet con la minuscola. Nel 1986 la chiamavano ancora Arpanet, o meglio Arpanet era la rete dei centri di ricerca accademici a cui l’Italia si collegò”. “https://www.wired.it/internet/web/2016/04/29/vera-storia-internet/
[2] “La stampa a caratteri mobili è una tecnica di stampa introdotta dal tedesco Johannes Gutenberg nel 1455, per quanto riguarda l’Europa. In Asia esisteva fin dal 1041, grazie alla tecnica dell’inventore Bi Sheng.” https://it.wikipedia.org/wiki/Stampa_a_caratteri_mobili
[3] A Better Chance to Gain Enough Entropy, performance per nove voci e partitura di testi manoscritti, light box e wall painting, Quadriennale 16 , Palazzo delle Esposizioni Roma, sezione De Rerum Rurale a cura di Matteo Lucchetti, 2016
[4] La Mossa di Ettore, (tavolo-scachiera con incisione in foglia d’oro e file audio) prodotta e presentata dalla  Fondazione MAXXI Roma in occasione della mostra  Open Museum Open City a cura di Hou Hanru e ora parte della collezione del museo.
[5] GAFA acronimo composto dalle iniziali di: google, amazon, facebook, apple.
[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Edward_Snowden
[7] Edward Snowden, Permanent Record, Mc Millian, 2019. A questa biografia ho dedicato un articolo pubblicato sul blog Antinomie.

 

 

AD Quali principi costituzionali e diritti universali dell’uomo vengono violati nell’attuare la sorveglianza di massa che la pandemia ha legittimato?

VV Con settembre 2001 e poi gli attacchi di Parigi, in occidente, abbiamo imparato che le misure di sorveglianza eccezionali instaurate nei periodi di crisi, talvolta, quando la crisi è superata, entrano a far parte della quotidianità e così diventano invisibili, si consolidano nello spazio pubblico e nella percezione delle persone che non le percepiscono più come misure eccezionali.

Tuttavia credo non sia una regola e non essendo una giurista ho invitato nella nostra conversazione la mia amica Francesca Rosa, Professore Associato di Diritto Pubblico Comparato alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Foggia. Le ho chiesto di rispondere alla tua domanda così da avere un quadro chiaro e preciso di quanto successo in Italia dal punto di vista del diritto.

Qui di seguito riporto la sua risposta:

<< Dopo la dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria (31 gennaio 2020), il Governo ha adottato significative limitazioni di molti diritti costituzionali. Libertà di movimento, di riunione, di culto, di iniziativa economica, diritto di voto, alla salute e all’istruzione sono stati oggetto di compressioni senza precedenti dalla fine della seconda guerra mondiale.

La costituzione contempla la possibilità di limitare i diritti al fine di tutelare altri diritti o beni tutelati dalla carta fondamentale. Ad esempio si riconosce a ogni cittadino il diritto di circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale “salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza” (art. 16). La stessa Corte costituzionale, già nella sua prima sentenza, ha affermato che “il concetto di limite è insito al concetto di diritto” e che “nell’ambito dell’ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente, perché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile” (sent. 1 del 1956).

Le limitazioni ai diritti imposte in seguito alla pandemia erano volte a tutelare la salute, che è un diritto individuale e un interesse della collettività (art. 32), un interesse che in questi mesi ha assunto di certo un carattere primario. Nondimeno, poiché nessun diritto costituzionale può essere “tiranno” rispetto agli altri, deve essere operato un ragionevole bilanciamento fra diritti e fra diritti e interessi. Inoltre, è necessario che tali limitazioni siano imposte secondo le forme prescritte dalla costituzione. Il problema, dunque, non è quello dell’ammissibilità dei limiti, ma semmai quello della loro misura e forma.

Quello delle forme è un tema sul quale ci sono stati problemi nel rapporto tra legislazione e amministrazione, tra atto normativo e provvedimento amministrativo. Il Governo ha cercato di aggiustare il tiro nei decreti-legge che si sono succeduti da febbraio in avanti. Quanto alla misura, invece, di certo ci sono stati bilanciamenti discutibili, ma credo che i giudizi sulla eventuale violazione dei diritti debbano essere formulati in termini puntuali, cioè in riferimento a ciascun diritto e in relazione alle limitazioni cui è stato soggetto nel corso dei mesi, tenendo presente che il quadro normativo è cambiato velocemente. Ad esempio a me è parsa problematica la portata nazionale delle limitazioni. Nell’ottica della proporzionalità sarebbe stato forse preferibile “graduare” le misure restrittive in base ai dati sulla diffusione del contagio, che non è stato omogeneo su tutto il territorio.

Per quanto riguarda la “sorveglianza”, credo che questa espressione possa essere riferita sia ai controlli messi in campo per verificare il rispetto dei limiti di cui abbiamo parlato, sia all’utilizzo di applicazioni informatiche per monitorare la diffusione del contagio. I primi non credo possano essere definiti “di massa”. E’ possibile che in alcuni casi tali controlli siano stati esercitati ultra vires, ma non mi sentirei di affermarlo in linea di principio. Sull’utilizzo delle applicazioni informatiche, invece, c’è stato un ampio dibattito, che ha chiamato in causa il rispetto della privacy individuale delle informazioni sullo stato di salute e sugli spostamenti dei singoli. In proposito considero fondamentale la volontarietà della scelta. Se l’utilizzo di queste applicazioni è libero, rimesso alla scelta individuale, non mi pare ci siano gli estremi per parlare di violazione della riservatezza. Paradossalmente sarebbe salutare una discussione altrettanto larga sulla riservatezza dimenticata dei dati personali che quotidianamente consegnamo alla rete. Ho la sensazione che la sorveglianza di massa sia oggi silenziosamente praticata dai soggetti privati nelle mani dei quali ogni giorno depositiamo senza grandi preoccupazioni molte informazioni sulle nostre vite.>>

AD Che possibilità abbiamo di difenderci? Dall’arte che trova la sua essenza nella libertà, quali le possibili risposte? 

VV Credo che la vera possibilità di difesa sia la consapevolezza. Studiare, informarsi e dunque essere consapevoli di ciò che accade intorno noi.

L’arte è un prezioso spazio di libertà e un possibile strumento di conoscenza, per chi la pratica come artista, curatore, critico, e per chi la fruisce come appassionato, collezionista, pubblico.

Mi vengono in mente due opere di Eva e Franco Mattes che da anni ragionano sul web e sui suoi meccanismi. Life Sharing[1]  in cui per tre anni, dal 2001 al 2003, gli autori hanno reso accessibile e scaricabile in tempo reale tutti i contenuti del loro computer di casa al pubblico, email, file, dettagli bancari intuendo e mettendo in scena i temi della privacy online. E il più recente saggio video My Little Big Data[2] in cui gli artisti consegnano volontariamente tutti i loro metadata[3] ad un investigatore privato invitandolo a ricostruire la loro vita nel dettaglio. Da quelle informazioni ne deriva un ritratto “scientifico” della vita di Eva e Franco Mattes, ricco di grafici, analisi numeriche, schemi che svela quanto sia invasiva la possibilità di leggere la nostra vita attraverso i metadata che produciamo.

Mi viene anche in mente l’ultimo lavoro del pittore e artista concettuale Miltos Manetas “Condizione Assange”[4] – Una mostra che apre per restare chiusa – cominciata l’11 maggio 2020 ancora in corso per pochi giorni al palazzo delle Esposizioni di Roma e che sintetizza in un doppio parallelismo il rapporto tra i corpi, il corpo della pittura, e il web, visto come strumento con capacità di diffondere messaggi e fruizione estetica. Una doppia riflessione politica: sulla persona e sulla condizione di Assange e, come in uno specchio, sulla condizione che tutti abbiamo vissuto durante il lockdown.

Un coppia di artisti-ricercatori che da anni si interroga intelligentemente sul web sono Salvatore Iaconesi e Oriana che hanno fondato HER- She loves Data: un centro di ricerca che studia dati e modelli computazionali (come algoritmin, Ai, network) guardati secondo un modello che i suoi autori definiscono non generativo ma esistenziale, e che “usa l’Arte come modalità di conoscenza partecipativa in questo processo[5].

[1] https://anthology.rhizome.org/life-sharing
[2]https://0100101110101101.org/my-little-big-data/
[3] I metadata sono dati che danno informazioni su altri dati. I metadati sono pertanto dei marcatori, una sorta di post-it, collegati a un oggetto informatico (immagine, documento, pagina web, brano musicale ecc.), o a una serie di oggetti informatici; e hanno lo scopo di descriverne il contenuto e/o gli attributi.
[4] https://www.palazzoesposizioni.it/mostra/condizione-assange-miltos-manetas
[5] https://operavivamagazine.org/la-spirale-della-conoscenza/

AD Come le app per il tracciamento dei contagi rafforzano le identità digitali e quali potrebbero essere le ripercussioni sul piano personale, politico, economico? 

VV Purtroppo le identità digitali pur esistendo di fatto, non sono ancora riconosciute giuridicamente dai governi nazionali e sovranazionali. E questo nella mia opinione è il nodo cruciale della nostra presenza online oggi. Se non si riconosce ufficialmente la nostra identità digitale come parallela a quella fisica e di pari importanza non la si può tutelare. Le app di tracciamento potrebbero non essere percepite come un pericolo, se esistesse una tutela giuridica.

Credo si sia anche creato un forte misunderstanding su queste app, le stesse persone che senza preoccuparsi spesso regalano i loro dati ai GAFAS, o un app di videogiochi o per ordinare una pizza online, poi sono restii a darli in una situazione di pubblica utilità.

La tua domanda mi porta anche a riflettere su come la sfera della salute sia da sempre associata alla sfera privata, è una informazione che riveliamo a pochi, la propria salute è un’area di massima riservatezza cui si associa forse anche vergogna.  In questo senso non mi sorprende la nostra resistenza alla possibilità di condividere queste informazioni.  Credo anche subentri il timore di essere considerati, visti, riconosciuti come dei paria. In questo periodo di isolamento che to trascorso chiusa in nella casa a Milano dove abito da un anno, e per fortuna con un piccolo giardino-rifugio, ho partecipato ad una lettura collettiva in remoto organizzata da Daniel Blanga Gubbay, co-direttore del Kunsten Festival di Bruxelles, sui testi “Immunitas e Comunitas” e “Immunity and Violence ”  di Roberto Esposito. Questi testi, come scriveva Daniel nel suo post di invito pubblicato su facebook, “traced ten years ago the link between the two concepts: if the community is a shared gift and obligation to the other; the immunity is a withdrawal from a shared condition. Yet, what if we dig into the opposition, to see immunity as one of the forms of the community?” Esposito, tra le altre cose, muoveva un parallelo con il periodo in cui l’HIV si è diffusa e come il corpo delle persone affette da quel virus sia stato considerato a lungo, un corpo pericoloso. Mi vengono anche in mente dei video che sono circolati online e su whatsapp, Non so quanto siano affidabili, tuttavia mostravano scene provenienti da un generico est, che si immaginava fosse la Cina, con gendarmi alle prese con il corpo del malato, che veniva subito espulso, lavato, isolato dal corpo sociale, in modo violento. Non ho mai indagato la veridicità o le fonti di questi video, mi ha interessato di piuttosto guardarli come un monito: per me rappresentano un estremo da non raggiungere e la visualizzazione della paura che possa capitare anche a noi.

L’uso dei dati può essere una risorsa, come in questi giorni scrivono in articoli molto interessanti Tiziano Bonini e Salvatore Iaconesi[1], ma aggiungo, può esserlo se ho il diritto di decidere quali dati condividere e quali no.

Nella mia opinione non c’è ancora abbastanza distanza dagli eventi per poter guardare lucidamente a ciò che è avvenuto e sta avvenendo, le uniche due linee guida che cerco di praticare sono informarmi e non far guidare il mio sguardo dalla paura con cui pure conviviamo.

In questo senso trovo significativo la condivisione che Salvatore Iaconesi fa della sua malattia, un cancro, incrociando la sua esperienza individuale con la sua ricerca di hacker e artista.

 

[1] Salvatore Iaconesi, Come la ‘spettacolarizzazione dei dati’ cambia la nostra percezione della realtà,  pubblicato il 31 marzo 2020 su che-fare https://www.che-fare.com/iaconesi-dati-societa-covid-19/           Tiziano Bonini, Come tutti noi abbiamo usato i dati per dare un senso alla pandemia, pubblicato il 7 luglio 2020 su che-fare https://www.che-fare.com/come-tutti-noi-abbiamo-usato-i-dati-per-dare-un-senso-alla-pandemia/

AD La didattica e il lavoro distanza quali effetti potrebbero indurre sul piano personale e sociale? 

VV In questo periodo ho avuto un’esperienza diretta di insegnamento a distanza.  Ho notato che i miei studenti, dapprima entusiasti di non andare a scuola e di poter usare il computer, la loro passione, piano piano si sono spenti e hanno perso vitalità. Uno degli studenti ha scritto un racconto in cui mette in scena, inconsapevolmente, ciò che gli è mancato. Racconta una avventura popolata di animali fantastici di cui uno gli chiede dimora nella sua stanza e diventa il suo compagno di gioco segreto, con cui vola fuori da casa e che gli fa compagnia la notte.

L’insegnamento è una pratica che condivide con la performance l’esperienza condivisa di alcuni corpi nello spazio, una esperienza che, secondo me, si può alternare con quella online, ma non si può sostituire.

Dal punto di vista del professore e di tutti lavoratori in remoto, ho sperimentato come il lavoro da casa corra il rischio di espandersi più del dovuto nella vita privata fino ad eliminare gli spazi e i tempi indispensabili dell’ozio, della cura, di ciò che non è lavoro. La definizione di smart working è stata problematizzata da molti autori sulle pagine di quotidiani e riviste in questo periodo. Smart infatti non è per chi è nella posizione di dipendente, subordinato, a partita iva, e viene sfruttato dal datore di lavoro. Anche questa è una questione che andrebbe regolata. La cultura della produttività, della performance, dell’essere imprenditore di sé stessi, come la definisce Paolo Virno, implica essere disponibili al lavoro 24 su 24, ed era già presente e ai suoi estremi, prima della pandemia. Ancora una volta, il Codiv 19 e l’obbligo di lavorare da casa che ne è derivato, ha solo evidenziato contraddizioni già esistenti.

In questi mesi sono emerse molte azioni aggregative di rivendicazione tra i lavoratori. Anche tra i lavoratori dell’arte, penso al gruppo AWI in Italia, o al gruppo di lavoro di cui faccio parte, un gruppo informale, nato all’interno del Forum dell’arte contemporana e coordinato da Matteo Lucchetti e Valerio Del Baglivo, dedicato a ripensare il bando dell’Italian Council per venire in contro alle esigenze degli operatori dell’arte emerse in questo momento di fragilità.

AD Pensi che il ricatto della paura possa determinare anche nel futuro  cambiamenti radicali nelle relazioni sociali incentivando i rapporti a distanza a discapito di quelli ravvicinati?

Quali le conseguenze possibili?

VV Fino al giorno prima della pandemia la paura si rivolgeva per molti agli stranieri, ai cosiddetti profughi che, dalle coste d’Africa, arrivano “per rubare il lavoro agli italiani” secondo lo slogan che si era diffuso e che aveva catalizzato insoddisfazioni e paure di ogni sorta. Il nemico, individuato in modo semplicistico, era lo straniero, in barba alla complessità delle questioni legate ai flussi migratori che per altro hanno da sempre caratterizzato la storia degli esseri viventi, animali umani e non e a ogni questione di solidarietà.

Ora la possibilità di individuare il nemico così semplicemente è svanita, l’orizzonte è chiaramente complesso e molti tra coloro che appartengono quelle stesse frange di popolazione pensano a complotti, a poteri che hanno interesse a immobilizzarci. Ora è più difficile semplificare e individuare l’elemento esterno verso cui indirizzare le nostre paure.

Ora nel nostro immaginario il “nemico”, l’untore, può potenzialmente essere un familiare, un amico, una persona che per caso incontriamo in un ascensore. Per contrastare questa istintiva tendenza credo sia più che mai necessario creare oggi forme di comunicazione, di solidarietà, di azione comune. E mi sembra, che contrariamente alle previsioni, ci sia una grande fame di corpi che vogliono stare vicini, stare tra corpi. Mi sembra anche che quando non è possibile incontrarsi fisicamente sia un grande privilegio potersi incontrare almeno online e continuare a scambiare pensiero a mettere idee in comune.  Qualche giorno fa ascoltavo un programma su Radio 3, ero alla guida e stavo raggiungendo la mia famiglia in campagna, non ricordo più i dettagli del programma, tuttavia si discuteva di questi stessi temi, e un padre raccontava del primo incontro tra sua figlia adolescente e la sua migliore amica dopo i mesi del lockdown  in cui la loro unica possibilità di comunicazione era stata una chat. Questo primo incontro aveva trovato forma in un’abbraccio lunghissimo, singhiozzi, un pianto liberatorio e quindi un sorriso.  Ecco questa breve storia di una coppia di amiche millennials raccontata da qualcuno nato prima dell’introduzione di Internet, credo ci possa rassicurare.

Chiudo lasciando la parola al contributo di Caterina Riva per la mostra Real Time (www.seventeengallery.com/exhibitions/real-time/) in cui cita l’incipit di Can I help you? di Jia Tolentino pubblicato su The New Yorker il 18 Maggio 2020:  “civic connection is the only way to survive”.